Antonio Conte, allenatore del Napoli, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera. Di seguito un estratto.
Lei è davvero un sergente di ferro?
«Ci sono momenti in cui devi essere più rigido, più duro, perché quello necessita la situazione, poi ci sono anche quelli in cui diventi un fratello maggiore, un padre. Per il ruolo di capo, di un leader, sarebbe fin troppo facile imporre la propria idea, dare ordini e basta. Il problema è riuscire a trovare il modo affinché capiscano l’importanza e ti seguano. Le cose devi farle attraverso l’esempio. Si accelera e si decelera, il punto di equilibrio è la chiave di tutto. Vale per il calciatore, il terapista, il magazziniere, il giardiniere. In un club, dal primo all’ultimo, tutti devono far parte di un meccanismo che lavora per ricercare il miglioramento continuo. L’esempio del fare è alla base di tutto. È inevitabile che quando le cose non vanno nella giusta direzione mi arrabbio e anche tanto».
Tutti i giocatori che ha allenato le riconoscono un grande carisma, un modo unico di entrare nella testa, ma non ce n’è uno che non dica: sì ma i suoi allenamenti sono durissimi. Quando qualcuno si lamenta cosa fa?
«Una volta il capitano del Chelsea venne a chiedere di rallentare il ritmo, di fare meno sedute video. Io acconsentii soprattutto rispettando la loro cultura, il loro modo differente di vivere il calcio. Quando sei in un Paese diverso dal tuo devi essere attento a non stravolgere troppo. Ebbene, perdemmo due partite di fila e ho rischiato di essere esonerato. Da allora penso che se devo “morire” in qualche scelta e situazione da affrontare, lo devo fare a modo mio e non per mano di altri. Questo è il metodo, il trust in process come dicono gli inglesi. Tenere fermo il punto delle scelte. La ricerca del consenso a tutti i costi è un’autocondanna. E se penso alla durezza degli allenamenti, sorrido. Zidane e Del Piero si allenavano in modo molto più duro. Oggi si fa un terzo di quello che facevamo noi. Il lavoro va naturalmente legato ai risultati, mi è capitato di allenare squadre dove dopo un po’ i calciatori stessi cercavano situazioni di fatica. Questo vuol dire per me aver ottenuto il risultato».
A Napoli è successo?
«I ragazzi sono stati sempre disponibili, mi hanno seguito fin dal primo giorno, e alla fine sono riusciti a mentalizzare il concetto di fatica, di sacrificio. Certo, a questa squadra all’inizio mancava quello che io chiamo il coltello nel calzino. Serve cattiveria sportiva, si va in guerra senza scrupoli. Poi lo hanno trovato, altrimenti non avremmo vinto il campionato. Quando alla Juve arrivò Carlos Tevez sapevamo tutti che era un campione straordinario, ma arrivò da noi con una fama di ragazzo non proprio semplice da gestire. Ebbe un inizio un po’ complicato di adattamento, ma poi a un certo punto diventò il primo in tutto nel dare l’esempio. Con ciascuno bisogna trovare la chiave di accesso. Mi costa a volte anche incazzature forti ma va bene così. Guardo all’aspetto umano e all’obiettivo».
Qual è stata la partita in cui ha avuto la sensazione che poteva vincere lo scudetto?
«Quella con l’Inter, recuperare lo svantaggio, rischiare di vincere. Dissi pubblicamente per la prima volta: “Se vogliamo, possiamo”. Era un messaggio per i miei ragazzi. Ci credevo, dovevano farlo anche loro. Poi nel calcio c’è sempre l’imponderabile. Il pareggio col Genoa ha rischiato seriamente di compromettere lo scudetto: il difensore centrale intercetta un passaggio filtrante nella sua metà campo, passa il pallone e inizia a girovagare nella nostra area, finisce al terzino sinistro che riesce a crossare nonostante io urli a Politano di impedire il cross, e il difensore Vásquez fa gol nonostante fosse in mezzo a tre nostri giocatori».
Come la decisione di restare a Napoli. O attribuisce a sua moglie Betta qualche merito?
«La famiglia è un punto di riferimento ma certe scelte le faccio io. Mia moglie, mia figlia stanno molto bene a Napoli ed è un dato di fatto. Ma poi sono io che devo allenare tutti i giorni una squadra, loro non c’entrano nulla».
A proposito com’è andata con De Laurentiis?
«Nel nostro incontro ci siamo chiariti, parlare è stato fondamentale. Lui ha capito gli errori o comunque le situazioni che devono essere migliorate. Ho un contratto e il chiarimento è stato il punto chiave. Il resto sono state voci che hanno fatto male, non hanno tenuto conto di come sono fatto io».